Le Fate -parte seconda-

 Brontolò, brontolò; ma brontolando prese la strada portando con sé la più bella fiasca d’argento che fosse in casa. La superbia, capite, e l’infingardaggine!… Appena arrivata alla fonte, eccoti apparire una gran signora vestita magnificamente, che le chiede un sorso d’acqua. Era la medesima Fata apparsa poco prima a quell’altra sorella; ma aveva preso l’aspetto e il vestiario di una principessa, per vedere fino a quale punto giungeva la malcreanza di quella pettegola. “O sta’ a vedere…”, rispose la superba, “che son venuta qui per dar da bere a voi!… Sicuro!… per abbeverare vostra Signora, non per altro!…

Le Fate -parte prima-

 C’era una volta una vedova che aveva due figliuole. La maggiore somigliava tutta alla mamma, di lineamenti e di carattere, e chi vedeva lei, vedeva sua madre, tale e quale. Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare. Viverci insieme poi, era impossibile addirittura. La più giovane invece, per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo… e tanto bella poi, tanto bella, che non si sarebbe trovata l’eguale. E naturalmente, poiché ogni simile ama il suo simile, quella madre andava pazza per la figliuola maggiore; e sentiva per quell’altra un’avversione, una ripugnanza spaventevole.

L’Orsa -parte quarta-

 La mamma, anche se le sembrò uno sproposito che l’orsa dovesse fare da cuoco e da cameriera e se sospettò che il figlio stesse farneticando, tuttavia, per accontentarlo, la fece portare. E lei, arrivata al letto del principe, alzò la zampa e toccò il polso del malato e fece spaventare la regina, convinta che da un momento all’altro gli avrebbe strappato il naso. Ma, quando il principe disse all’orsa: “Chiappino mio, vuoi cucinare per me e darmi da mangiare e prenderti cura di me?”, lei abbassò la testa indicando che gli stava bene. Per questo la mamma fece portare un poco di galline e accendere il fuoco in un camino nella stessa camera e mettere a bollire l’acqua, e l’orsa, presa una gallina, la scottò, la spennò abilmente e, dopo averla fatta a pezzi, parte ne ficcò in uno spiedo e parte ne fece un bel gratinato e il principe, che non riusciva a mandar giù lo zucchero, finì con leccarsi anche le dita e, quando ebbe finito di ingoiare, gli diede da bere con tanta grazia che la regina volle baciarla in fronte.

L’Orsa -parte terza-

 Allora, il principe, una volta che tutti erano usciti da casa ed era rimasto solo, si affacciò per vedere l’orsa e vide che Preziosa, per acconciarsi i capelli, si era tolta il bastoncino di bocca e si pettinava le sue trecce d’oro. Per questo, vedendo questa bellezza incredibile stava svenendo per lo stupore e, gettandosi giù per le scale, corse in giardino. Ma Preziosa, accortasi dell’agguato, s’infilò il bastoncino in bocca e tornò com’era. Il Principe, sceso giù e non trovando quello che aveva visto da sopra, restò così stupito da quest’inganno che preso da una grande malinconia in quattro giorni cadde malato dicendo continuamente: “Ora, orsa mia”.

L’Orsa -parte seconda-

 Ora, quando il paese fu pieno di femmine, il re le fece mettere in fila e cominciò a camminare, come fa il Gran Turco quando entra nel Serraglio per scegliere la migliore pietra da mola per affilare il suo coltello damaschino; e, andando e venendo su e giù, come una scimmia che non sta mai ferma, e covando e squadrando questa e quella, una gli sembrava storta di fronte, una di naso lungo, chi di bocca larga, chi di labbra grosse, questa troppo alta, quella troppo bassa e malfatta, chi troppo gonfia, chi eccessivamente gracilina; la spagnola non gli piaceva per il suo colorito gialliccio, la napoletana non gli andava a genio per i tacchi con cui cammina, la tedesca gli sembrava fredda e gelata, la francese col cervellino troppo leggero, la veneziana una conocchia di lino con i capelli sbiaditi.

L’Orsa -parte prima-

 Si racconta che c’era una volta il re di Roccaspra, che aveva per moglie la mamma della bellezza, che, nel meglio degli anni, cadde dal cavallo della salute e si ruppe la vita. Ma, prima che si spegnesse la candela del vivere all’asta degli anni, chiamò il marito e gli disse: “So che mi hai sempre amata con tutte le tue ciliegine; per questo mostrami al fondiglio dei miei anni la schiuma del tuo amore, promettimi di non sposarti mai se non trovi un’altra donna bella come sono stata bella io, altrimenti ti lascio una maledizione a tette spremute e ti odierò fin dentro l’altro mondo”.

Il falso uccello e lo sposo stregone -parte seconda-

 E sotto le sembianze di un mendicante, si recò nella casa del pover’uomo a domandare l’elemosina. La seconda figlia gli portò un pezzo di pane, e anche di questa s’impadronì con un solo tocco e poi se la portò via. Non andò meglio neppure alla sorella, si lasciò prendere dalla curiosità, aprì la stanza insanguinata, guardò dentro e al ritorno dello stregone dovette pagare con la vita. Egli andò a prendere la terza che era prudente e scaltra. Quando l’uomo le diede la chiave e partì, per prima cosa mise l’uovo bene al sicuro, poi esaminò la casa, alla fine andò nella stanza proibita. Dio mio, cosa vide! Le sue care sorelle giacevano nella vasca, pietosamente uccise e fatte a pezzi. Ma lei cercò e raccolse le parti del corpo sparse le riunì, testa, corpo, braccia, gambe.

Il falso uccello e lo sposo stregone -parte prima-

 C’era una volta un vecchio mago che, preso l’aspetto di un mendicante, andava di casa in casa chiedendo l’elemosina e si portava via le belle ragazze. Nessuno aveva idea di dove le portasse, né di che fine facessero, perché non tornavano mai più. Un giorno arrivò davanti alla porta di un uomo che aveva tre belle figliole, lo stregone aveva l’aspetto di un poverello e portava sulla schiena una gerla come se volesse raccogliere lì i doni che riceveva. Chiese per carità un pezzo di pane e quando la figlia più grande glielo offrì, la toccò appena e quella dovette balzargli nella gerla. Poi lo stregone se n’andò a grandi passi e se la portò nella sua casa che stava nella boscaglia più fitta.

Le fiamme e la caldaia

 In mezzo alla tiepida cenere era rimasto un tizzo di carbone ancora acceso. Con grande penuria e con molta parsimonia consumava le sue ultime energie, nutrendosi del minimo indispensabile per non morire. Ma giunse l’ora di mettere la minestra sul fuoco, e perciò il focolare fu rifornito di nuova legna.
Uno zolfanello, con la sua piccola fiamma, resuscitò il tizzo che pareva ormai spento; e una lingua di fuoco guizzò fra la legna, sopra alla quale era stata appesa la caldaia.

La margheritina -parte terza-

 Ma il povero uccello si lamentava a voce alta della libertà perduta e batteva con le ali contro le sbarre della gabbia; la margheritina non poteva parlare, non poteva dirgli una sola parola di conforto, come pure desiderava tanto. Così passò tutta la mattina.
«Qui non c’è acqua» disse l’allodola prigioniera. «Tutti sono usciti e non mi hanno dato una sola goccia d’acqua; ho la gola secca e infuocata, c’è fuoco e ghiaccio dentro di me e l’aria è così pesante! Ah, devo morire, lasciare il sole caldo, il fresco verde, tutte quelle bellezze che Dio ha creato!» e intanto affondava il becco nella fresca zolla d’erba, per refrigerarsi un po’; in quel momento il suo sguardo si posò sulla margheritina e l’uccello le fece un cenno di saluto, la baciò con il becco e esclamò: