Il re acconsentì. Il giovane principe incontrò a sua volta il nano che gli chiese il motivo del suo viaggio.
“Mio padre sta per morire ed io sto tentando di trovare l’acqua dell’eterna giovinezza per poterlo salvare”, rispose il principe gentilmente.
“Sai almeno dove si trova?” gli chiese il nano.
“Ahimè! No” rispose il principe con rimpianto.
“Tu non sei orgoglioso come i tuoi fratelli, quindi t’indicherò dove trovarla. Quest’acqua miracolosa si trova nel cortile di un castello incantato, dove sgorga da una fontana. Ecco una bacchetta magica con la quale busserai tre volte alla porta del castello. Questa si aprirà e tu vedrai all’interno due leoni che fedelmente fanno la guardia. Getterai loro queste due forme di pane ed essi ti lasceranno passare. Vai dritto alla fontana e raccogli in una coppa l’acqua dell’eterna giovinezza. Ma stai attento, bisogna che tu venga via prima che suonino i dodici colpi di mezzogiorno, in caso contrario rimarrai prigioniero nel castello”.
Il principe ringraziò il nano e proseguì il cammino portando con se la bacchetta magica e le due pagnotte.
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L’acqua dell’eterna giovinezza -parte prima-
C’era una volta un re che era molto malato, così malato che i suoi tre figli ne provavano una gran pena. Per nascondere le loro lacrime si erano rifugiati nel parco del castello, allorquando videro venir loro incontro un vecchio al quale confidarono il loro tormento.
“Conosco un rimedio” disse l’uomo “è l’acqua dell’eterna giovinezza. Qualche sorso basterà a guarire il re, ma è molto difficile procurarsela”.
Il primo dei tre figli si precipitò al capezzale di suo padre e lo mise al corrente del suo desiderio di partire alla ricerca di questo miracoloso rimedio.
“L’impresa è troppo pericolosa, è meglio che io muoia, figlio mio”, rispose il re in fin di vita, “non voglio che tu rischi la tua vita”.
Ma il figlio primogenito insistette e infine ottenne il consenso di suo padre, pensando che a missione compiuta avrebbe ereditato il suo regno. Il principe inforcò il suo robusto destriero e si mise in cammino. Cavalcò giorni e giorni, allorquando incontrò un nano che sembrava lo stesse aspettando.
“Dove vai così in fretta bravo cavaliere?” gli chiese il nano.
La Bella addormentata nel bosco -parte quarta-
C’era un silenzio, che metteva paura: dappertutto l’immagine della morte: non si vedevano altro che corpi distesi per terra, di uomini e di animali, che parevano morti, se non che dal naso bitorzoluto e dalle gote vermiglie dei guardaportoni, egli si poté accorgere che erano soltanto addormentati, e i loro bicchieri, dove c’erano sempre gli ultimi sgoccioli di vino, mostravano chiaro che si erano addormentati trincando. Passa quindi in un altro gran cortile, tutto lastricato di marmo; sale la scala ed entra nella sala delle guardie, che erano tutte schierate in fila colla carabina in braccio, e russavano come tanti ghiri; traversa molte altre stanze piene di cavalieri e di dame, tutti addormentati, chi in piedi chi a sedere. Entra finalmente in una camera tutta dorata, e vede sopra un letto, che aveva le cortine tirate su dai quattro lati, il più bello spettacolo che avesse visto mai, una principessa che mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgorante c’era qualche cosa di luminoso e di divino. Si accostò tremando e ammirando, e si pose in ginocchio accanto a lei. In quel punto, siccome la fine dell’incantesimo era arrivata, la principessa si svegliò, e guardandolo con certi occhi, più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento, “Siete voi, o mio principe?”, ella gli disse. “Vi siete fatto molto aspettare!”
La Bella addormentata nel bosco -parte terza-
Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di pernici e di fagiani si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco. E tutte queste cose furono fatte in un batter d’occhio; perché le fate sono sveltissime nelle loro faccende.
Allora il re e la regina, quand’ebbero baciata la loro figlia, senza che si svegliasse, uscirono dal castello, e fecero bandire che nessuno si fosse avvicinato a quei pressi. E la proibizione non era nemmeno necessaria, perché in meno d’un quarto d’ora crebbe, lì dintorno al parco, una quantità straordinaria di alberi, di arbusti, di sterpi e di pruneti, così intrecciati fra loro, che non c’era pericolo che uomo o animale potesse passarvi attraverso. Si vedevano appena le punte delle torri del castello: ma bisognava guardarle da una gran distanza. E anche qui è facile riconoscere che la fata aveva trovato un ripiego del suo mestiere, affinché la principessa, durante il sonno, non avesse a temere l’indiscrezione dei curiosi. In capo a cent’anni, il figlio del re che regnava allora, e che era di un’altra famiglia che non aveva che far nulla con quella della principessa addormentata, andando a caccia in quei dintorni, domandò che cosa fossero le torri che si vedevano spuntare al di sopra di quella folta boscaglia.
La Bella addormentata nel bosco -parte seconda-
Fatto sta, che passati quindici o sedici anni, il re e la regina essendo andati a una loro villa, accadde che la principessa, correndo un giorno per il castello e mutando da un quartiere all’altro, salì fino in cima a una torre, dove in una piccola soffitta c’era una vecchia, che se ne stava sola sola, filando la sua rocca. Questa buona donna non sapeva nulla della proibizione fatta dal re di filare col fuso.
“Che fate voi, buona donna?”, disse la principessa. “Son qui che filo, mia bella ragazza”, le rispose la vecchia, che non la conosceva punto.
“Oh! carino, carino tanto!”, disse la principessa, “ma come fate? datemi un po’ qua, che voglio vedere se mi riesce anche a me.” Vivacissima e anche un tantino avventata com’era (e d’altra parte il decreto della fata voleva così), non aveva ancora finito di prendere in mano il fuso, che si bucò la mano e cadde svenuta. La buona vecchia, non sapendo che cosa si fare, si mette a gridare aiuto. Corre gente da tutte le parti; spruzzano dell’acqua sul viso alla principessa: le sganciano i vestiti, le battono sulle mani, le stropicciano le tempie con acqua della regina d’Ungheria; ma non c’è verso di farla tornare in sé.
La Bella addormentata nel bosco -parte prima-
C’era una volta un re e una regina che erano disperati di non aver figli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto. Andavano tutti gli anni ai bagni, ora qui ora là: voti, pellegrinaggi; vollero provarle tutte: ma nulla giovava. Alla fine la regina rimase incinta, e partorì una bambina.
Fu fatto un battesimo di gala; si diedero per comari alla principessina tutte le fate che si poterono trovare nel paese, ce n’erano sette, perché ciascuna di esse le facesse un regalo; e così toccarono alla principessa tutte le perfezioni immaginabili di questo mondo.
Dopo la cerimonia del battesimo, il corteggio tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in onore delle fate. Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d’oro massiccio, dove c’era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d’oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini. Ma in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una vecchia fata, la quale non era stata invitata con le altre, perché da cinquant’anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta.
Il re le fece dare una posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d’oro massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente sette, per le sette fate.
Il leone, l’orso e la volpe
Quella mattina un grande orso bruno, era proprio affamato. Vagava con la lingua di fuori per la foresta in cerca di un po’ di cibo quando all’improvviso vide, nascosto tra i cespugli, un bel capretto abbandonato sicuramente da qualche cacciatore. Fuori di sé dalla gioia si tuffò su quell’insperato tesoro culinario ma, proprio nello stesso momento ebbe la medesima idea anche un grosso leone che non mangiava da alcuni giorni. I due si trovarono faccia a faccia e si studiarono con espressione rabbiosa.
“Questo cesto appartiene a me!” urlò l’orso.
“Bugiardo!” Ruggì il leone infuriato.
In men che non si dica esplose una lotta terribile tra i contendenti i quali si azzuffarono insultandosi senza riserva. Intanto, poco distante, una giovane volpe passeggiava tranquilla per il bosco occupandosi delle proprie faccende. All’improvviso venne attirata da insolite urla e si avvicinò al luogo di provenienza per scoprire di cosa si trattasse.
L’aquila e lo scarafaggio
Un’aquila inseguiva una lepre per catturarla. Questa non sapeva come trovare aiuto; così, visto uno scarafaggio, il solo essere in cui il caso la fece imbattere, si diede a supplicarlo. Lo scarafaggio la rassicurò e, appena l’aquila gli si avvicinò, prese a scongiurarla perché non gli portasse via la povera lepre. Ma l’aquila non si curò di quel piccolo insetto nero e divorò la lepre proprio sotto i suoi occhi.
Memore dell’offesa, lo scarafaggio, da allora, prese a seguire l’aquila con costanza: osservava i luoghi dove quella faceva il nido e deponeva le uova; volava al nido, si posava sulle uova e le faceva rotolare provocandone la rottura.
Cacciata da tutti i luoghi, l’aquila un giorno si rivolse a Giove e lo pregò di procurarle un luogo sicuro, dove poter fare le sue covate. Giove le permise di deporre le uova nel proprio grembo. Ma lo scarafaggio ideò uno stratagemma: fece una pallottola di sterco, volò sopra il grembo di Giove e ve lo lasciò cadere.
La leonessa e la volpe
Serenamente accucciate all’ombra di una fresca pianta situata nel cuore della foresta, una tranquilla leonessa e una placida volpe, chiacchieravano tra loro come due vecchie amiche, discutendo del più e del meno.
Per un ascoltatore attento non era difficile però, scoprire che, nascoste nelle loro parole, vi era racchiuso un pizzico d’invidia. In effetti, la volpe, desiderava possedere lo stesso coraggio e l’identica sicurezza che alimentavano il comportamento dell’amica la leonessa, mentre a questa sarebbe piaciuto conquistare la celebre furbizia dell’altra. Nonostante le piccole gelosie racchiuse nei loro cuori, entrambe mantenevano un rapporto forzatamente cortese, scambiandosi sorrisi ed esagerati complimenti.
Finché, un giorno, passeggiando insieme nel bosco con i rispettivi cuccioli che trotterellavano amabilmente intorno a loro, giocando e rincorrendosi fra gli alberi, la volpe non riuscì più a trattenere una frase alimentata unicamente dall’invidia. “Mia cara ” disse atteggiandosi a gran dama e indicando con lo sguardo i suoi piccoli, “tu avrai anche un portamento da regina, possiedi grande forza e vigore, ma, in quanto a madre, devi ammettere che io sono più portata.
La volpe e il leone
Quella mattina una volpe se ne andava tranquilla per i prati rifioriti dopo la brutta stagione invernale. I profumi della natura le solleticavano le nari accarezzandole la fantasia, permettendole di sognare paesi lontani, belli e sconosciuti. All’improvviso la sua attenzione venne richiamata da un violento ruggito. Era un verso che non aveva mai sentito e, terrorizzata, fuggì a nascondersi dietro ad un cespuglio. Da li poté vedere, riparata tra le foglie, il terribile animale che aveva emesso quel suono: si trattava di un leone, una bestia a lei sconosciuta. Spaventata, la povera volpe, scappò via il più velocemente possibile.
Trascorsero un paio di giorni tranquilli dopo quel brutto incontro che sembrava quasi essere stato dimenticato, quando, d’un tratto, la piccola volpe si imbatté ancora nel leone. Questa volta il re della foresta le apparve proprio davanti ostacolandole il cammino. La volpe, impaurita, iniziò a tremare come una foglia senza tuttavia fuggire ma rimanendo ferma al suo posto fino a quando il leone non si fu allontanato. La terza volta che la volpe si imbatté in quel grosso e possente animale dal risonante ruggito, scoprì che il proprio timore nei suoi confronti andava pian piano assopendosi.