Le fiabe più belle: il secondo viaggio di Sinbad il marinaio

di Redazione Commenta

Sappiate, fratelli miei, che io vivevo, come vi ho detto ieri, una vita serena ed agiata e non mi mancava nulla, fino a che un giorno nell’animo mio tornò a nascere il desiderio di viaggiare nei paesi degli uomini visitando isole e città nuove. Una volta che tale desiderio si fu insinuato nell’animo mio, non ebbi pace fino a che non presi la decisione. Raccolsi tutto il denaro liquido che avevo in casa, acquistai gran copia di merci e di provviste e scesi sulla riva del Tigri, dove vidi, in procinto di salpare, una bella nave nuova di zecca, con grandi vele di tela robusta, bene attrezzata ed equipaggiata. Insieme con altri mercanti salii a bordo, dopo aver fatto caricare tutte le mie merci, e quello stesso giorno salpammo le ancore.

Navigammo felicemente per diversi mari, toccando porti e isole, e dovunque scendevamo a terra, salutati dalla gente, dai mercanti e dai notabili del luogo e concludevamo buoni affari vendendo e comprando.
Alla fine Allah volle che prendessimo terra in un’isola amena, tutta verdeggiante di alberi, dai quali pendevano frutti saporosi. L’aria di quest’isola era profumata dai fiori e risuonava per il canto di numerosi uccelli; dovunque scorrevano ruscelli d’acqua limpida e cristallina ma, per quanto cercassimo, non scorgemmo alcuna traccia di uomini: non vedemmo né abitanti né case.
Il capitano mise la nave alla fonda e i mercanti scesero a terra per godersi la frescura degli alberi, il profumo dei fiori e il canto degli uccelli, lodando l’Unico, il Vittorioso, l’Onnipotente che aveva creato tali meraviglie. Anch’io scesi con gli altri portando a terra qualche provvista. e mi sedetti vicino ad una fonte mangiando quello che Allah mi aveva destinato.
L’aria in quel luogo era così dolce, il profumo dei fiori cosi fragrante, che, dopo mangiato, mi stesi sull’erba per fare un pisolino. Quando mi svegliai, mi trovai solo; la nave era partita con tutti i suoi passeggeri e nessuno si era ricordato di me.
Cominciai a cercare affannosamente a destra e a sinistra, ma non trovai né uomini né spiriti. Ero completamente solo su quell’isola disabitata. Mi prese allora un grande sconforto e la vescica del fiele fu sul punto di rompersi per l’amarezza e l’afflizione. Disperando di poter mai uscire da quel luogo mi dissi:
” Cadi oggi e cadi domani, la giara finisce per rompersi! La prima volta riuscii a salvarmi perché qualcuno mi ricondusse nei paesi abitati, ma questa volta temo proprio che non vi sia speranza per me! “.
In un accesso di rabbia contro me stesso, mi misi a piangere e a gemere, rimproverandomi di avere voluto affrontare ancora una volta le incertezze e i pericoli di un viaggio per mare, quando a casa non mi mancava nulla e avevo tutto ciò che potevo desiderare e trascorrevo una vita serena e felice. Mi pentii amaramente di aver lasciato Baghdad, soprattutto dopo aver fatto l’esperienza del primo viaggio, durante il quale poco era mancato ch’io non perdessi la vita.
Allora esclamai: ” Noi siamo cose di Allah ed a lui dobbiamo ritornare! ”
Sentendomi impazzire, quasi in preda a un sortilegio, cominciai a camminare avanti e indietro senza sapere dove andassi né che cosa facessi. Alla fine mi arrampicai su un albero altissimo e cominciai a scrutare l’orizzonte, ma non vidi altro che cielo e mare, alberi e uccelli, isole e sabbia. Tuttavia, dopo un poco, guarda che ti riguarda, scorsi in lontananza verso l’estremità dell’isola una forma biancheggiante. Scesi dall’albero e mi diressi a quella volta e, quando fui abbastanza vicino, mi accorsi che quell’oggetto bianco era una grande cupola che si levava alta verso il cielo.
Cominciai à girarle intorno, ma non riuscii a trovare né porte né pertugi. Cercai di arrampicarmi, ma la cosa mi riuscì impossibile, perché la cupola era straordinariamente liscia e non offriva alcun appiglio. Tracciai un segno per terra nel luogo in cui mi trovavo e girai attorno alla cupola constatando che la sua circonferenza era di buoni cinquanta passi. Mentre me ne stavo lì a lambiccarmi il cervello sul modo migliore di entrare in quella cupola, ecco che d’un tratto il sole si oscurò, come se una grande nuvola lo avesse coperto. La cosa mi meravigliò moltissimo perché eravamo d’estate e il cielo era limpido e terso; allora levai in alto gli occhi e vidi un uccello dalla mole enorme e dalle ali larghissime che, volando nell’aria, aveva nascosto completamente il sole all’isola.
A quella vista il mio stupore non ebbe limiti; ma subito ricordai di aver sentito viaggiatori e pellegrini raccontare di un uccello enorme, chiamato Rukh, che abitava in una certa isola e che nutriva i suoi piccoli con gli elefanti. Non ebbi più dubbi che la cupola che aveva attirato la mia attenzione fosse un uovo del Rukh. Mentre io non finivo di meravigliarmi per le opere dell’Onnipotente, l’uccello si posò sulla cupola e cominciò a covarla, accovacciandosi con le zampe tese indietro. In questa posizione si addormentò, sia lode all’Insonne!
Quando fui sicuro che l’uccello dormiva, mi avvicinai, sciolsi il turbante e lo attorcigliai facendone una corda robusta e molto resistente e me ne legai strettamente un capo alla vita; l’altro capo lo assicurai a una zampa dell’uccello dicendomi:
” Chissà che questo uccello non mi porti in una terra dove siano uomini e città; questo sarà meglio che rimanere in un’isola deserta. ”
Quella notte non dormii per tema che l’uccello volasse via all’improvviso. Non appena apparve in cielo il primo chiarore dell’alba, il Rukh si alzò dall’uovo, spalancò le enormi ali e, gettando un grido assordante, si levò in volo trascinandomi con sé. Salì e salì tanto in alto che pensai avesse raggiunto il limite del cielo; poi, a poco a poco cominciò a discendere fino a che prese terra in cima ad un’alta collina.
Non appena mi sentii la terraferma sotto i piedi, mi affrettai, con mani tremanti dalla paura, a scioglierne dal Rukh temendo che si accorgesse di me. Tuttavia l’uccello non mi prestò alcuna attenzione, ma si guardò in giro e dopo un poco vidi che aveva afferrato fra gli artigli qualcosa. Guardai più attentamente e mi accorsi che si trattava di un serpente dalle proporzioni smisurate. Tenendo ben stretta fra le zampe la sua preda, l’uccello si levò di nuovo in volo e dopo poco sparì dalla vista.
Pieno di meraviglia per ciò che mi era capitato e che avevo visto, avanzai fino al ciglio della collina e vidi al miei piedi una valle ampia e profonda, circondata da monti la cui altezza sarebbe impossibile descrivere; basterà dire che erano tanto alti che l’occhio umano non riusciva a scorgerne le vette. Quando ebbi visto il luogo in cui mi trovavo, esclamai:
” Avesse voluto il cielo che fossi rimasto su quell’isola! Quanto era meglio di questo deserto! Per lo meno laggiù c’era frutta da mangiare e acqua da bere, mentre qui non vi sono né alberi, né frutti, né ruscelli. Ma non vi è né grandezza né potenza se non in Allah, il Glorioso! Mi par proprio che il mio destino sia quello di scampare da un pericolo per cadere in un pericolo maggiore. ”

Tuttavia mi feci coraggio e scesi verso la valle per esplorarla meglio. E fu allora che mi accorsi che il fondo della valle era fatto di diamanti, ma vidi anche, purtroppo, che il luogo era popolato di serpenti grossi come tronchi di palma, capaci di mangiare con un solo boccone un elefante o un bufalo, e tutti questi serpenti di giorno si nascondevano per paura dell’uccello Rukh e di notte uscivano fuori dai loro antri. Vedendo ciò, non potei fare a meno di esclamare:
” Per Allah, quanta fretta ho avuto di precipitarmi verso la morte! ” Poiché il giorno stava per finire, pensai di cercare un nascondiglio dove passare la notte al riparo da quei serpenti spaventosi.
Guarda e guarda, alla fine scorsi una caverna con una entrata stretta; mi infilai in quel pertugio, feci rotolare una grossa pietra bloccandone l’ingresso e mi sedetti per terra tirando un sospiro di sollievo e dicendomi:
” Se Dio vuole, per questa notte sono in salvo; domani non appena farà giorno uscirò e vedrò quello che il destino tiene in serbo per me! “.
Ciò detto mi guardai intorno e allora i capelli mi si rizzarono sulla testa dalla paura e cominciai a sudare freddo, perché in fondo alla caverna c’era un enorme serpente acciambellato, intento a covare le sue uova. Mi raccomandai allora ad Allah misericordioso e, cercando di non muovermi e di non fare rumore, mi rincantucciai in un angolo e trascorsi la nottata in preda al timore. Appena si fece giorno, tolsi la pietra dall’apertura dell’antro e uscii fuori, barcollando come un ubriaco, stordito dall’insonnia, dalla fame e dalla paura.
Cominciai a girare per la valle pensando al modo di uscirne, quand’ecco che d’un tratto mi vidi cadere davanti ai piedi una bestia scannata. Alzai gli occhi e non vidi nessuno. Me ne stavo ancora stupito da quest’altro fenomeno , quando mi ricordai di aver sentito raccontare una volta da viaggiatori e mercanti che le montagne di diamanti sono luoghi pieni di pericoli e inaccessibili, ma che coloro i quali cercano i diamanti usano uno stratagemma per appropriarsene. Dall’alto di un monte gettano in fondo alla valle pecore scannate e quarti di bue, e le pietre di diamante che sono in fondo alla valle si attaccano alla carne ancora fresca.
I mercanti rimangono poi in attesa fino a che, a giorno fatto, non sopraggiungono aquile ed avvoltoi che, scorgendo la preda, la afferrano con gli artigli e se la portano in cima al monte. I mercanti piombano allora addosso agli uccelli emettendo alte grida e spaventandoli, così che quelli volano via. Allora essi tolgono le pietre di diamante rimaste attaccate alla carne fresca e se ne tornano ai loro paesi con il carico prezioso lasciando la carne alle aquile e agli avvoltoi. Né pare vi sia altro mezzo, se non questo, per impadronirsi dei diamanti.
Così, quando mi vidi cadere davanti quell’animale sgozzato, mi ricordai di questa storia e subito corsi a riempirmi le tasche, le pieghe dell’abito, il turbante con le pietre più belle che riuscii a trovare. Mentre ero intento a far ciò, ecco che mi vidi cadere davanti ai piedi un’altra bestia, più grande, sgozzata. Allora mi legai ad essa con il turbante e mi distesi per terra, lasciando che la carcassa dell’animale mi coprisse tutto.
Mi ero appena messo in posizione, quand’ecco una grossa aquila calò giù dal cielo, afferrò la carne con gli artigli e volò via trasportando anche me, che stavo aggrappato alla carcassa dell’animale ucciso. E tanto volò che giunse in cima a un monte, dove si posò. E stava per azzannare l’animale, sotto il quale io ero nascosto, quand’ecco si udirono strepiti e grida e l’aquila impaurita volò via. Allora io mi sciolsi dalla carcassa e mi alzai in piedi. Ed ecco che apparve il cercatore di diamanti che aveva gettato in fondo alla valle quella carcassa e vedendomi lì in piedi si prese paura non sapendo se io fossi un uomo o uno spirito. Poi si fece coraggio, si avvicinò alla bestia e non trovandovi alcun diamante attaccato cominciò a gemere e a lamentarsi battendo il petto:
” Povero me! Povero me! Solo nella maestà e nella potenza di Allah troviamo rifugio contro Satana il lapidato! Ahimè, povero me! Che faccenda è questa? ”
Allora io mi avvicinai a lui ed egli mi disse:
” Chi sei tu e come mai ti trovi in questo luogo? ”
E io: ” Non temere. Io sono un uomo e non uno spirito: sono un onest’uomo e faccio il mercante. La mia storia è incredibile, le mie avventure sono meravigliose e il modo in cui sono giunto qui è prodigioso. Dunque sta’ di buon animo e non temere nulla da me; e anzi, per dimostrarti la mia buona disposizione, ti darò tanti diamanti quanti tu non ne avresti mai potuti trovare attaccati a questa carne e più belli di quelli che tu abbia mai raccolto. Perciò, non temere nulla. ”
A queste parole l’uomo si rallegrò e mi ringraziò e mi benedisse. Poi ci mettemmo a chiacchierare insieme, fino a che gli altri cercatori, sentendomi discorrere con il loro compagno, si fecero avanti e mi salutarono. Allora io raccontai tutta la mia storia e dissi delle sofferenze che avevo patito e del modo in cui ero giunto in fondo a quella valle. Quindi diedi al padrone della bestia macellata un certo numero di pietre fra quelle che avevo indosso ed egli fu molto contento ed invocò su di me ogni benedizione dicendo:
” Allah deve averti decretato una nuova vita, perché nessuno prima di te è mai sceso in quella valle e ne è uscito vivo. Sia dunque lodato Allah per la tua salvezza. ”

Passammo la nottata in un luogo sicuro e piacevole, mentre io mi rallegravo per essere scampato alla valle dei serpenti e per essere giunto fra persone civili. La mattina di poi ci mettemmo in viaggio, attraversando l’imponente catena di monti e vedendo molti serpenti nella valle, finché alla fine giungemmo in una bellissima isola, dove c’era un giardino con grandissimi alberi di canfora, ognuno dei quali, con i suoi rami, poteva fare ombra a cento uomini .
Quando gli abitanti del posto hanno bisogno di canfora, con un lungo ferro fanno un buco nella parte superiore del tronco, ed ecco che dal buco esce acqua di canfora, che sarebbe la linfa dell’albero, ed essi la raccolgono in grandi recipienti dove subito diventa densa come resina. Però dopo questa operazione l’albero muore ed è buono solo per farne legna da ardere.
In questa stessa isola c’è una specie di bestia selvatica, chiamata karkadann, che pascola nei prati come da noi le vacche e i bufali, ma il suo corpo è più grande di quello di un cammello e si ciba di foglie d’alberi e di arbusti. È, un animale notevole, con un corno grande e grosso, lungo dieci cubiti, piazzato in mezzo alla fronte. e se questo corno si spacca in due dentro vi si vede la figura di un uomo.
Viaggiatori e mercanti dicono che questa bestia, chiamata karkadann, ha tanta forza che è capace di portare infilzato sul corno un elefante e continuare a pascolare per l’isola e lungo la costa senza avvedersene, fino a che l’elefante muore e il suo grasso, sciogliendosi al calore del sole, scorre negli occhi del karkadann e lo acceca. Allora l’animale si getta a terra sulla spiaggia adagiato su un lato e poi arriva il grande uccello Rukh, che lo afferra tra gli artigli e lo porta ai suoi piccoli i quali si cibano del karkadann e dell’elefante che ha infilzato sul corno.
In quell’isola vidi anche molte specie di buoi e di bufali che non hanno nulla a che vedere con quelli che si trovano nei nostri paesi. Colà vendetti una parte dei diamanti, cambiandoli in dinàr d’oro e in dirham d’argento, e con altri comprai alcuni prodotti del luogo; poi, dopo aver caricato su bestie da soma le merci, continuai a viaggiare con i mercanti di valle in valle e di città in città comprando e vendendo, osservando i paesi stranieri e le opere e le creature di Allah, fino a che giungemmo alla città di Bassora dove sostammo qualche giorno; dopo di che, congedatomi dai mercanti, continuai il mio viaggio verso Baghdad.
Qui giunto, mi riunii agli amici e ai parenti, dispensai il denaro in elemosine ed opere di carità e feci ai miei amici molti regali con gli oggetti che avevo portato dai paesi stranieri. Poi, col cuore leggero e con l’animo sgombro da ogni affanno, pensai solo a mangiare bene, a bere meglio e a trascorrere il tempo serenamente. E tutti quelli che udivano del mio ritorno a casa venivano a trovarmi e mi facevano una quantità di domande sulle avventure che avevo avuto e sui paesi stranieri che avevo visto. Ed io raccontavo loro tutto ciò che mi era successo e quello che avevo sofferto, e questo era motivo per tutti di grande gioia e non v’era chi non si rallegrasse perché ero tornato sano e salvo.
In tal modo si conclude la storia del mio secondo viaggio e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò quello che mi accadde durante il terzo viaggio.
Quando i presenti ebbero finito di esprimere la loro meraviglia per questo racconto, furono portati i cibi e tutti cenarono abbondantemente. Poi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date cento monete d’oro a Sindbad il Facchino, il quale le prese, ringraziò e andò ad accudire alle sue faccende, continuando a stupirsi per le avventure capitate a Sindbad il Marinaio e lodando in cuor suo Allah che lo aveva salvato e benedicendo il suo benefattore.

Da Le Mille e una Notte

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