Psicologia delle mamme: uccide il neonato durante una cena di famiglia

di Redazione Commenta

Soffocato dalla madre nel bagno dell’abitazione del nonno, durante una cena di famiglia. Così è morto, secondo gli inquirenti, il neonato per il cui omicidio è stata arrestata la madre, insegnante in una scuola dell’infanzia di Trento. La tragedia è avvenuta la sera del 26 giugno. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, durante la cena, Francesca Giovannoni, 41 anni di Trento, si è alzata ed è andata in bagno. Qui, secondo l’accusa, ha partorito senza che nessuno se ne accorgesse. Quindi avrebbe stretto al petto il neonato soffocandolo.

Come se niente fosse…
Lasciato il piccolo morto in un angolo del bagno, la donna è tornata tranquillamente a tavola dai parenti. Questi le hanno chiesto l’origine dei lamenti simili a vagiti provenienti dal bagno, e la donna avrebbe risposto loro che era sicuramente un gatto. Il corpo del bimbo – ha reso noto il procuratore generale di Trento Stefano Dragone – non è stato ancora trovato. Si ipotizza sia stato gettato nell’Adige o in un cassonetto dei rifiuti. “Gli indizi a carico della donna sono estremamente fondati“, ha aggiunto il dottor Dragone. La donna sarà interrogata nelle prossime ore.

Mamme che uccidono i propri figli
Negli ultimi anni, giornali e televisioni danno con frequenza impressionante notizie di madri assassine. Perché? Troviamo la risposta da Chiara Tamborini, di Psicologia Utile: la maternità, che le donne hanno sempre vissuto con altre donne, nelle famiglie patriarcali, rassicurate dalla solidarietà e l’esperienza delle parenti più anziane, pronte ad aiutarle e a fugare ogni dubbio o paura, ora è spogliata di questo cerchio protettivo. Le famiglie oggi sono formate da coppie che spesso vivono lontane dalle famiglie d’origine, e si trovano ad affrontare la genitorialità tanto desiderata senza preparazione e con un grande ottimismo, che di frequente si infrange contro gli scogli delle prime difficoltà. Spesso le donne soffrono perché temono di non essere in grado di crescere il proprio figlio, ma hanno vergogna a parlarne perché si sentono in colpa. Eppure, le generazioni che ci hanno precedute hanno svolto questo compito con grande naturalezza e in condizioni ben più difficili di quelle attuali: cos’è cambiato, dunque, nelle donne?

Una diversa educazione
Innanzitutto, è cambiata l’educazione che si è ricevuta: noi donne delle nuove generazioni siamo state cresciute per studiare e lavorare, mentre le nostre madri e ancor meglio le nostre nonne, sono state preparate fin da piccole a fare le mogli e le madri. E’ bene chiarire che dopo il parto avviene un crollo ormonale, che crea naturalmente uno stato depressivo chiamato “blues”, che dura qualche giorno e scatena nella donna, che si sente indifesa e quasi più “piccola” del proprio figlio neonato, preda di vere e proprie crisi di pianto, causate dal bisogno di essere rassicurata dalla presenza continua del proprio compagno. E’ importante che il marito sia disponibile ad aiutare la neomamma, alternandosi con lei nell’accudimento del bambino e dando sicurezza alla propria compagna, che inevitabilmente attraverserà momenti di grande fragilità, dandole amore e fiducia per affrontare insieme lacrime e crisi. E’ una situazione assolutamente normale e fisiologica, che passa senza bisogno di cure particolari, e viene sostituita da un periodo che dura circa un anno, caratterizzato da una grande e continua stanchezza, fisica e mentale.

Donna o mamma?
Il figlio tanto desiderato è finalmente nato: una certezza, dunque, ma la confusione più totale verte sulla propria identità. “Chi sono io? Sono solo una madre o posso essere considerata ancora una donna?
Spesso il marito è assente e poco attento a ciò che la compagna vive e soffre. Non è futile sentirsi poco attraenti, e la sensazione è rafforzata da un corpo che ha subito modificazioni; da una fragilità che non si è conosciuta prima; dallo spazio di coppia che è necessariamente ridotto e complicato.
La sofferenza non va mai sottovalutata, così come il disagio. Basta uno sguardo, un sorriso, un apprezzamento inaspettato per rischiarare un momento di tristezza, e dedicare tempo e ascolto alla propria donna evita di creare un senso di vuoto che allontana la coppia e spesso non si riesce più a recuperare, perchè crea una frattura che il tempo può solo ampliare.

La mamma perfetta
La neomadre ha paura di non essere una brava madre, la madre perfetta che le pubblicità strombazzano a tutte le ore. Sempre perfettamente truccata e di ottimo umore, in grado di sfornare manicaretti prelibati anche se ha trascorso la notte dormendo soltanto un’ora, felice anche se il marito rientra con dieci ospiti inaspettati per cena, e mai con un capello fuori posto. Sinceramente, più simile a un robot che a un essere umano!
A questo si aggiungono i messaggi culturali che considerano abominevole uno scatto di nervi dovuto alla stanchezza, accrescendo il senso di inadeguatezza, la frustrazione, la paura e lo smarrimento. L’ansia può portare la madre a vegliare il proprio figlio tutta la notte, arrivando a svegliarlo più volte, nel timore che muoia nel sonno. La mistificazione sociale del concetto di madre ideale, unita alla mancanza d’informazione, dilata il disagio: la nascita va affrontata dalla coppia e col sostegno della famiglia: insieme. E’ importante dare alla donna la possibilità di vivere momenti di libertà per recuperare il sonno arretrato, trascorrere del tempo con le amiche o curare il proprio aspetto, ricontattando così la propria identità.

La preparazione
Non si diventa madri perfette immediatamente dopo il parto: c’è bisogno di preparazione alla fatica fisica e all’insopportabilità del pianto persistente del neonato, che è la sua unica forma possibile di comunicazione.
Ma anche l’assenza di pianto può essere vissuta male: un bambino molto “bravo” che piange poco può far sentire la madre inutile nel suo ruolo.
Il tessuto sociale si è impoverito, e non ci si conosce, pur abitando vicini. Le richieste d’aiuto non vengono raccolte, perché spesso manca l’abitudine a comunicare il proprio dolore.
E’ necessario l’ascolto perfino del silenzio, la comprensione, e l’attenzione anche per ciò che non viene detto.
Si prova un grande senso di solitudine nel trovarsi con un bambino piccolo che continua a piangere per ore senza che se ne capisca il motivo, ma il senso di colpa (“non è normale pensare queste cose”) impedisce di chiedere aiuto. C’è l’abitudine diffusa ad occuparsi soltanto di sé, e questa superficialità impedisce di guardare gli altri con occhi attenti e aperti all’accoglienza.

Chi lo pensa non lo fa…
Questa è la situazione assolutamente normale che ogni donna che diventa madre si trova a vivere. Non c’è da preoccuparsi se ci si sente inadeguate, anzi questo può solo spronare ad essere madri migliori: solo le madri veramente inadeguate ma inconsapevoli di esserlo causano sofferenze ai propri figli!
E nessuna madre ansiosa che ha paura di uccidere il proprio figlio, lo farà mai veramente.

La depressione post-partum
Il discorso cambia se la donna cade nella depressione post-partum vera e propria, una malattia che può durare anche molti anni, in cui la sofferenza è tale da rendere difficoltosa la richiesta d’aiuto. Per i congiunti è spesso difficile interpretare il silenzio unito a segnali di disagio come l’assenza di interessi, l’indifferenza a qualsiasi stimolo e a volte l’emergere di una rabbia continua. Queste sono situazioni a rischio, sia per la salute mentale della donna che per il figlio piccolo: occorre tanto amore da parte della famiglia, unito all’aiuto di uno psicologo preparato ad affrontare queste tematiche. Gran parte delle madri con figli che soffrono di un disagio profondo risalente all’infanzia e difficile da capire per chi la circonda: non si tratta di depressione, ma di qualcosa di invisibile che esplode con violenza quando il parto e l’accudimento di un figlio richiedono l’equilibrio che non si è in grado di avere.

La solitudine e il rischio di infanticidio
Per queste donne, la “distrazione” del partner e la sua mancanza di attenzione amplifica il senso di solitudine che in questo quadro è un sintomo psicotico, proiettato in un’idea di realtà lontana da quella effettiva, che porta a vedere in pericolo di vita un bambino perfettamente sano.
La visione distorta si spinge a credere che il figlio sia indemoniato o che non possa sopravvivere alla morte della madre: ossessioni patologiche che portano alla convinzione che ucciderlo sia l’unico modo possibile per salvarlo.
Sono forme di destrutturazione dell’io preesistenti alla maternità, che esplodono senza che vengano percepiti, perché ne manca la consapevolezza.

L’importanza di essere indipendenti
Al momento del ricovero nella struttura psichiatrica giudiziaria, queste donne sono totalmente avulse dalla realtà, e devono essere accompagnate in un percorso di crescita e di riappropriazione della propria indipendenza attraverso la cura di sé. Spesso non sono in grado di lavarsi o di mangiare da sole, e vengono aiutate dalle donne ricoverate da più tempo. Quando acquisiscono un livello minimo di autonomia, vengono stimolate a sviluppare le proprie risorse attraverso il giardinaggio, il ricamo, la preparazione di alcuni cibi, la lettura. Queste madri ferite vanno guardate con occhio privo di giudizio: non sono feroci assassine, ma persone con limiti, difficoltà e potenzialità. Consideriamole ciò che sono: donne, persone, esseri umani.
La presa di coscienza dell’atto commesso è parziale, e a volte non avviene. Quando la si raggiunge, si ottiene la più grave punizione possibile, quella che non si finisce mai di scontare: un dolore senza fine e senza consolazione.

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